IL CAMMINO A CUI LA CHIESA È CHIAMATA IN QUESTI ANNI

"Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione, missione

Papa Francesco la settimana scorsa rivolgendosi ai fedeli della Diocesi di Roma ha ricordato il cammino a cui è chiamata tutta la chiesa in questi anni. Una riflessione quella di papa Francesco che apre a tutti gli orizzonti della Chiesa. Essere una chiesa di comunione, di partecipazione e missione.

Anche la nostra Chiesa diocesi è chiamata a questo cammino e di conseguenza la nostra comunità pastorale non può restare indifferente a questo confronto sulla di Chiesa viva nell'oggi del post Pandemia. Diversi ambiti sono in "movimento" con riflessioni e confronti. C'è il desiderio di essere parte viva di questo tempo, il nostro tempo, il tempo di questa Chiesa di oggi.

In queste due settimane sull'INFORMATORE vi riportiamo questo intervento di Papa Francesco. È un'opportunità

per incominciare a pensare e riflettere personalmente. Poi troveremo spazi e luoghi per un confronto come

comunità pastorale dentro quello che anche il Sinodo Diocesano ci suggerirà. Mi permetto di dire che è

comunque bello vedere che all'interno della nostra comunità ci sono diversi fermenti di confronto che

certamente dovranno essere offerti alla comunità stessa

Il parroco

don Pierangelo


Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Come sapete – non è una novità! –, sta per iniziare un processo sinodale, un cammino in cui tutta la Chiesa si

trova impegnata intorno al tema: «Per un Chiesa sinodale: comunione, partecipazione, missione»: tre pilastri.

Sono previste tre fasi, che si svolgeranno tra ottobre 2021 e ottobre 2023. Questo itinerario è stato pensato

come dinamismo di ascolto reciproco, voglio sottolineare questo: un dinamismo di ascolto reciproco, condotto a tutti i livelli di Chiesa, coinvolgendo tutto il popolo di Dio. Il Cardinale vicario e i Vescovi ausiliari devono

ascoltarsi, i preti devono ascoltarsi, i religiosi devono ascoltarsi, i laici devono ascoltarsi. E poi, inter-ascoltarsi tutti. Ascoltarsi; parlarsi e ascoltarsi. Non si tratta di raccogliere opinioni, no. Non è un’inchiesta, questa; ma si

tratta di ascoltare lo Spirito Santo, come troviamo nel libro dell’Apocalisse: «Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo

Spirito dice alle Chiese» (2,7). Avere orecchi, ascoltare, è il primo impegno. Si tratta di sentire la voce di Dio,

cogliere la sua presenza, intercettare il suo passaggio e soffio di vita. Capitò al profeta Elia di scoprire che Dio è

sempre un Dio delle sorprese, anche nel modo in cui passa e si fa sentire:


«Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce […], ma il Signore non era nel

vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il

Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il

mantello» (1Re 19, 11-13).


Ecco come ci parla Dio. Ed è per questa “brezza leggera” – che gli esegeti traducono anche “voce sottile di

silenzio” e qualcun altro “un filo di silenzio sonoro” – che dobbiamo rendere pronte le nostre orecchie, per

sentire questa brezza di Dio.


La prima tappa del processo (ottobre 2021 - aprile 2022) è quella che riguarda le singole Chiese diocesane…

Il tema della sinodalità non è il capitolo di un trattato di ecclesiologia, e tanto meno una moda, uno slogan o il

nuovo termine da usare o strumentalizzare nei nostri incontri. No! La sinodalità esprime la natura della Chiesa,

la sua forma, il suo stile, la sua missione. E quindi parliamo di Chiesa sinodale, evitando, però, di considerare

che sia un titolo tra altri, un modo di pensarla che preveda alternative. Non lo dico sulla base di un’opinione

teologica, neanche come un pensiero personale, ma seguendo quello che possiamo considerare il primo e il più

importante “manuale” di ecclesiologia, che è il libro degli Atti degli Apostoli.

La parola “sinodo” contiene tutto quello che ci serve per capire: “camminare insieme”. Il libro degli Atti è la

storia di un cammino che parte da Gerusalemme e, attraversando la Samaria e la Giudea, proseguendo nelle

regioni della Siria e dell’Asia Minore e quindi nella Grecia, si conclude a Roma. Questa strada racconta la storia

in cui camminano insieme la Parola di Dio e le persone che a quella Parola rivolgono l’attenzione e fede. La

Parola di Dio cammina con noi. Tutti sono protagonisti, nessuno può essere considerato semplice comparsa.

Questo bisogna capirlo bene: tutti sono protagonisti. Non è più protagonista il Papa, il Cardinale vicario, i

Vescovi ausiliari; no: tutti siamo protagonisti, e nessuno può essere considerato una semplice comparsa. I

ministeri, allora, erano ancora considerati autentici servizi. E l’autorità nasceva dall’ascolto della voce di Dio e

della gente – mai separarli – che tratteneva “in basso” coloro che la ricevevano. Il “basso” della vita, a cui

bisognava rendere il servizio della carità e della fede. Ma quella storia non è in movimento soltanto per i luoghi

geografici che attraversa. Esprime una continua inquietudine interiore: questa è una parola chiave,

la inquietudine interiore. Se un cristiano non sente questa inquietudine interiore, se non la vive, qualcosa gli

manca; e questa inquietudine interiore nasce dalla propria fede e ci invita a valutare cosa sia meglio fare, cosa si

deve mantenere o cambiare. Quella storia ci insegna che stare fermi non può essere una buona condizione per

la Chiesa (cfr Evangelii gaudium, 23). E il movimento è conseguenza della docilità allo Spirito Santo, che è il

regista di questa storia in cui tutti sono protagonisti inquieti, mai fermi.

Pietro e Paolo, non sono solo due persone con i loro caratteri, sono visioni inserite in orizzonti più grandi di loro,

capaci di ripensarsi in relazione a quanto accade, testimoni di un impulso che li mette in crisi – un’altra

espressione da ricordare sempre: mettere in crisi –, che li spinge a osare, domandare, ricredersi, sbagliare e

imparare dagli errori, soprattutto di sperare nonostante le difficoltà. Sono discepoli dello Spirito Santo, che fa

scoprire loro la geografia della salvezza divina, aprendo porte e finestre, abbattendo muri, spezzando catene,

liberando confini. Allora può essere necessario partire, cambiare strada, superare convinzioni che trattengono e

ci impediscono di muoverci e camminare insieme.

Possiamo vedere lo Spirito che spinge Pietro ad andare nella casa di Cornelio, il centurione pagano, nonostante

le sue esitazioni. Ricordate: Pietro aveva avuto una visione che l’aveva turbato, nella quale gli veniva chiesto di

mangiare cose considerate impure, e, nonostante la rassicurazione che quanto Dio purifica non va più ritenuto

immondo, restava perplesso. Stava cercando di capire, ed ecco arrivare gli uomini mandati da Cornelio. Anche

lui aveva ricevuto una visione e un messaggio. Era un ufficiale romano, pio, simpatizzante per il giudaismo, ma

non era ancora abbastanza per essere pienamente giudeo o cristiano: nessuna “dogana” religiosa lo avrebbe

fatto passare. Era un pagano, eppure, gli viene rivelato che le sue preghiere sono giunte a Dio, e che deve

mandare qualcuno a dire a Pietro di recarsi a casa sua. In questa sospensione, da una parte Pietro con i suoi

dubbi, e dall’altra Cornelio che aspetta in quella zona d’ombra, è lo Spirito a sciogliere le resistenze di Pietro e

aprire una nuova pagina della missione. Così si muove lo Spirito: così. L’incontro tra i due sigilla una delle frasi

più belle del cristianesimo. Cornelio gli era andato incontro, si era gettato ai suoi piedi, ma Pietro rialzandolo gli

dice: «Alzati: anch’io sono un uomo!» (At 10,26), e questo lo diciamo tutti: “Io sono un uomo, io sono una

donna, siamo umani”, e dovremmo dirlo tutti, anche i Vescovi, tutti noi: “alzati: anche io sono un uomo”. E il

testo sottolinea che conversò con lui in maniera familiare (cfr v. 27). Il cristianesimo dev’essere sempre

umano, umanizzante, riconciliare differenze e distanze trasformandole in familiarità, in prossimità. Uno dei

mali della Chiesa, anzi una perversione, è questo clericalismo che stacca il prete, il Vescovo dalla gente. Il

Vescovo e il prete staccato dalla gente è un funzionario, non è un pastore. San Paolo VI amava citare la massima

di Terenzio: «Sono uomo, niente di ciò ch’è umano lo stimo a me estraneo». L’incontro tra Pietro e Cornelio

risolse un problema, favorì la decisione di sentirsi liberi di predicare direttamente ai pagani, nella convinzione –

sono le parole di Pietro – «che Dio non fa preferenza di persone» (At 10,34). In nome di Dio non si può

discriminare. E la discriminazione è un peccato anche fra noi: “noi siamo i puri, noi siamo gli eletti, noi siamo di

questo movimento che sa tutto, noi siamo…”. No. Noi siamo Chiesa, tutti insieme.

E vedete, non possiamo capire la “cattolicità” senza riferirci a questo campo largo, ospitale, che non segna mai i

confini. Essere Chiesa è un cammino per entrare in questa ampiezza di Dio. Poi, tornando agli Atti degli

Apostoli, ci sono i problemi che nascono riguardo all’organizzazione del crescente numero dei cristiani, e

soprattutto per provvedere ai bisogni dei poveri. Alcuni segnalano il fatto che le vedove vengono trascurate. Il

modo con cui si troverà la soluzione sarà radunare l’assemblea dei discepoli, prendendo insieme la decisione di

designare quei sette uomini che si sarebbero impegnati a tempo pieno nella diakonia, nel servizio alle mense

(At 6,1-7). E così, con il discernimento, con le necessità, con la realtà della vita e la forza dello Spirito, la Chiesa

va avanti, cammina insieme, è sinodale. Ma sempre c’è lo Spirito come grande protagonista della Chiesa.

Inoltre, c’è anche il confronto tra visioni e attese differenti. Non dobbiamo temere che questo accada ancora

oggi. Magari si potesse discutere così! Sono segni della docilità e apertura allo Spirito. Possono anche

determinarsi scontri che raggiungono punte drammatiche, come capitò di fronte al problema della circoncisione

dei pagani, fino alla deliberazione di quello che chiamiamo il Concilio di Gerusalemme, il primo Concilio. Come

accade anche oggi, c’è un modo rigido di considerare le circostanze, che mortifica la makrothymía di Dio, cioè

quella pazienza dello sguardo che si nutre di visioni profonde, visioni larghe, visioni lunghe: Dio vede lontano,

Dio non ha fretta. La rigidità è un’altra perversione che è un peccato contro la pazienza di Dio, è un peccato

contro questa sovranità di Dio. Anche oggi succede questo.

Era capitato allora: alcuni, convertiti dal giudaismo, ritenevano nella loro autoreferenzialità che non ci potesse

essere salvezza senza sottomettersi alla Legge di Mosè. In questo modo si contestava Paolo, il quale proclamava

la salvezza direttamente nel nome di Gesù. Contrastare la sua azione avrebbe compromesso l’accoglienza dei

pagani, che nel frattempo si stavano convertendo. Paolo e Barnaba furono mandati a Gerusalemme dagli

Apostoli e dagli anziani. Non fu facile: davanti a questo problema le posizioni sembravano inconciliabili, si

discusse a lungo. Si trattava di riconoscere la libertà dell’azione di Dio, e che non c’erano ostacoli che potessero

impedirgli di raggiungere il cuore delle persone, qualsiasi fosse la condizione di provenienza, morale o religiosa.

A sbloccare la situazione fu l’adesione all’evidenza che «Dio, che conosce i cuori», il cardiognosta, conosce i

cuori, Lui stesso sosteneva la causa in favore della possibilità che i pagani potessero essere ammessi alla

salvezza, «concedendo anche a loro lo Spirito Santo, come a noi» (At 15,8), concedendo così anche ai pagani lo

Spirito Santo, come a noi. In tal modo prevalse il rispetto di tutte le sensibilità, temperando gli eccessi; si fece

tesoro dell’esperienza avuta da Pietro con Cornelio: così, nel documento finale, troviamo la testimonianza del

protagonismo dello Spirito in questo cammino di decisioni, e della sapienza che è sempre capace di ispirare: «È

parso bene, allo Spirito Santo e a noi, di non imporvi altro obbligo» eccetto quello necessario (At 15,28). “Noi”:

In questo Sinodo andiamo sulla strada di poter dire “è parso allo Spirito Santo e a noi”, perché sarete in

dialogo continuo tra voi sotto l’azione dello Spirito Santo, anche in dialogo con lo Spirito Santo. Non

dimenticatevi di questa formula: “È parso bene allo Spirito Santo e a noi di non imporvi altro obbligo”: è

parso bene allo Spirito Santo e a noi. Così dovrete cercare di esprimervi, in questa strada sinodale, in questo

cammino sinodale. Se non ci sarà lo Spirito, sarà un parlamento diocesano, ma non un Sinodo. Noi non stiamo

facendo un parlamento diocesano, non stiamo facendo uno studio su questo o l’altro, no: stiamo facendo un

cammino di ascoltarsi e ascoltare lo Spirito Santo, di discutere e anche discutere con lo Spirito Santo, che è un

modo di pregare.


Seconda parte :

“Lo Spirito santo e noi”. C’è sempre, invece, la tentazione di fare da soli, esprimendo una ecclesiologia

sostitutiva – ce ne sono tante, di ecclesiologie sostitutive – come se, asceso al Cielo, il Signore avesse lasciato un

vuoto da riempire, e lo riempiamo noi. No, il Signore ci ha lasciato lo Spirito! Ma le parole di Gesù sono chiare:

«Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre. […] Non vi lascerò

orfani» (Gv 14,16.18). Per l’attuazione di questa promessa la Chiesa è sacramento, come affermato in Lumen

gentium 1: «La Chiesa è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione

con Dio e dell’unità di tutto il genere umano». In questa frase, che raccoglie la testimonianza del Concilio di

Gerusalemme, c’è la smentita di chi si ostina a prendere il posto di Dio, pretendendo di modellare la Chiesa sulle

proprie convinzioni culturali, storiche, costringendola a frontiere armate, a dogane colpevolizzanti, a spiritualità

che bestemmiano la gratuità dell’azione coinvolgente di Dio. Quando la Chiesa è testimone, in parole e fatti,

dell’amore incondizionato di Dio, della sua larghezza ospitale, esprime veramente la propria cattolicità. Ed

è spinta, interiormente ed esteriormente, ad attraversare gli spazi e i tempi. L’impulso e la capacità vengono dallo

Spirito:«Riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme,

in tutta la Giudea e Samaria e fino ai confini della terra» (At 1,8). Ricevere la forza dello Spirito Santo per essere

testimoni: questa è la strada di noi Chiesa, e noi saremo Chiesa se andremo su questa strada.

Chiesa sinodale significa Chiesa sacramento di questa promessa - cioè che lo Spirito sarà con noi - che

si manifesta coltivando l’intimità con lo Spirito e con il mondo che verrà. Ci saranno sempre discussioni, grazie a

Dio, ma le soluzioni vanno ricercate dando la parola a Dio e alle sue voci in mezzo a noi; pregando e aprendo gli

occhi a tutto ciò che ci circonda; praticando una vita fedele al Vangelo; interrogando la Rivelazione secondo

un’ermeneutica pellegrina che sa custodire il cammino cominciato negli Atti degli Apostoli. E questo è

importante: il modo di capire, di interpretare. Un’ermeneutica pellegrina, cioè che è in cammino. Il cammino che

è incominciato dopo il Concilio? No. È incominciato con i primi Apostoli, e continua. Quando la Chiesa si ferma,

non è più Chiesa, ma una bella associazione pia perché ingabbia lo Spirito Santo. Ermeneutica pellegrina che sa

custodire il cammino incominciato negli Atti degli Apostoli. Diversamente si umilierebbe lo Spirito Santo. Gustav

Mahler – questo l’ho detto altre volte – sosteneva che la fedeltà alla tradizione non consiste nell’adorare le ceneri

ma nel custodire il fuoco. Io domando a voi: “Prima di incominciare questo cammino sinodale, a che cosa siete

più inclini: a custodire le ceneri della Chiesa, cioè della vostra associazione, del vostro gruppo, o a custodire il

fuoco? Siete più inclini ad adorare le vostre cose, che vi chiudono – io sono di Pietro, io sono di Paolo, io sono di

questa associazione, voi dell’altra, io sono prete, io sono Vescovo – o vi sentite chiamati a custodire il fuoco dello

Spirito? È stato un grande compositore, questo Gustav Mahler, ma è anche maestro di saggezza con questa

riflessione. Dei Verbum (n. 8), citando la Lettera agli Ebrei, afferma: «“Dio, che molte volte e in diversi modi nei

tempi antichi aveva parlato ai padri” (Eb 1,1), non cessa di parlare con la Sposa del suo Figlio». C’è una felice

formula di San Vincenzo di Lérins che, mettendo a confronto l’essere umano in crescita e la Tradizione che si

trasmette da una generazione all’altra, afferma che non si può conservare il “deposito della fede” senza farlo

progredire: «consolidandosi con gli anni, sviluppandosi col tempo, approfondendosi con l’età» (Commonitorium

primum, 23,9) – “ut annis consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate”. Questo è lo stile del nostro

cammino: le realtà, se non camminano, sono come le acque. Le realtà teologiche sono come l’acqua: se l’acqua

non scorre ed è stantia è la prima a entrare in putrefazione. Una Chiesa stantia incomincia a essere putrefatta.

Vedete come la nostra Tradizione è una pasta lievitata, una realtà in fermento dove possiamo

riconoscere la crescita, e nell’impasto una comunione che si attua in movimento: camminare insieme realizza la

vera comunione. È ancora il libro degli Atti degli Apostoli ad aiutarci, mostrandoci che la comunione non sopprime

le differenze. È la sorpresa della Pentecoste, quando le lingue diverse non sono ostacoli: nonostante fossero

stranieri gli uni per gli altri, grazie all’azione dello Spirito «ciascuno sente parlare nella propria lingua nativa»

(At 2,8). Sentirsi a casa, differenti ma solidali nel cammino. Scusatemi la lunghezza, ma il Sinodo è una cosa seria,

e per questo io mi sono permesso di parlare…

Tornando al processo sinodale, la fase diocesana è molto importante, perché realizza l’ascolto della

totalità dei battezzati, soggetto del sensus fidei infallibile in credendo. Ci sono molte resistenze a superare

l’immagine di una Chiesa rigidamente distinta tra capi e subalterni, tra chi insegna e chi deve imparare,

dimenticando che a Dio piace ribaltare le posizioni: «Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili»

(Lc 1,52), ha detto Maria. Camminare insieme scopre come sua linea piuttosto l’orizzontalità che la verticalità. La

Chiesa sinodale ripristina l’orizzonte da cui sorge il sole Cristo: innalzare monumenti gerarchici vuol dire coprirlo.

I pastori camminano con il popolo: noi pastori camminiamo con il popolo, a volte davanti, a volte in mezzo, a

volte dietro. Il buon pastore deve muoversi così: davanti per guidare, in mezzo per incoraggiare e non dimenticare

l’odore del gregge, dietro perché il popolo ha anche “fiuto”. Ha fiuto nel trovare nuove vie per il cammino, o per

ritrovare la strada smarrita. Questo voglio sottolinearlo, e anche ai Vescovi e ai preti della diocesi. Nel loro

cammino sinodale si domandino: “Ma io sono capace di camminare, di muovermi, davanti, in mezzo e dietro, o

sono soltanto nella cattedra, mitra e baculo?”. Pastori immischiati, ma pastori, non gregge: il gregge sa che siamo

pastori, il gregge sa la differenza. Davanti per indicare la strada, in mezzo per sentire cosa sente il popolo e dietro

per aiutare coloro che rimangono un po’ indietro e per lasciare un po’ che il popolo veda con il suo fiuto dove

sono le erbe più buone.

Il sensus fidei qualifica tutti nella dignità della funzione profetica di Gesù Cristo (cfr Lumen gentium,

34-35), così da poter discernere quali sono le vie del Vangelo nel presente. È il “fiuto” delle pecore, ma stiamo

attenti che, nella storia della salvezza, tutti siamo pecore rispetto al Pastore che è il Signore. L’immagine ci aiuta

a capire le due dimensioni che contribuiscono a questo “fiuto”. Una personale e l’altra comunitaria: siamo pecore

e siamo parte del gregge, che in questo caso rappresenta la Chiesa. Stiamo leggendo nel Breviario, Ufficio delle

Letture, il “De pastoribus” di Agostino, e lì ci dice: “Con voi sono pecora, per voi sono pastore”. Questi due aspetti,

personale ed ecclesiale, sono inseparabili: non può esserci sensus fidei senza partecipazione alla vita della Chiesa,

che non è solo l’attivismo cattolico, ci dev’essere soprattutto quel “sentire” che si nutre dei «sentimenti di Cristo»

(Fil 2,5).

L’esercizio del sensus fidei non può essere ridotto alla comunicazione e al confronto tra opinioni che

possiamo avere riguardo a questo o quel tema, a quel singolo aspetto della dottrina, o a quella regola della

disciplina. No, quelli sono strumenti, sono verbalizzazioni, sono espressioni dogmatiche o disciplinari. Ma non

deve prevalere l’idea di distinguere maggioranze e minoranze: questo lo fa un parlamento. Quante volte gli

“scarti” sono diventati “pietra angolare” (cfr Sal 118,22; Mt 21,42), i «lontani» sono diventati «vicini» (Ef 2,13).

Gli emarginati, i poveri, i senza speranza sono stati eletti a sacramento di Cristo (cfr Mt 25,31-46). La Chiesa è

così. E quando alcuni gruppi volevano distinguersi di più, questi gruppi sono finiti sempre male, anche nella

negazione della Salvezza, nelle eresie. Pensiamo a queste eresie che pretendevano di portare avanti la Chiesa,

come il pelagianesimo, poi il giansenismo. Ogni eresia è finita male. Lo gnosticismo e il pelagianesimo sono

tentazioni continue della Chiesa. Ci preoccupiamo tanto, giustamente, che tutto possa onorare le celebrazioni

liturgiche, e questo è buono – anche se spesso finiamo per confortare solo noi stessi – ma San Giovanni

Crisostomo ci ammonisce: «Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non permettere che sia oggetto di disprezzo nelle

sue membra cioè nei poveri, privi di panni per coprirsi. Non onorarlo qui in chiesa con stoffe di seta, mentre fuori

lo trascuri quando soffre per il freddo e la nudità. Colui che ha detto: “Questo è il mio corpo”, confermando il

fatto con la parola, ha detto anche “Mi avete visto affamato e non mi avete dato da mangiare” e: “Ogni volta che

non avete fatto queste cose a uno dei più piccoli tra questi, non l’avete fatto neppure a me”» (Omelie sul Vangelo

di Matteo, 50, 3). “Ma, Padre, cosa sta dicendo? I poveri, i mendicanti, i giovani tossicodipendenti, tutti questi

che la società scarta, sono parte del Sinodo?”. Sì, caro, sì, cara: non lo dico io, lo dice il Signore: sono parte della

Chiesa. Al punto tale che se tu non li chiami, si vedrà il modo, o se non vai da loro per stare un po’ con loro,

per sentire non cosa dicono ma cosa sentono, anche gli insulti che ti danno, non stai facendo bene il Sinodo. Il

Sinodo è fino ai limiti, comprende tutti. Il Sinodo è anche fare spazio al dialogo sulle nostre miserie, le miserie che

ho io come Vescovo vostro, le miserie che hanno i Vescovi ausiliari, le miserie che hanno i preti e i laici e quelli

che appartengono alle associazioni; prendere tutta questa miseria! Ma se noi non includiamo i miserabili – tra

virgolette – della società, quelli scartati, mai potremo farci carico delle nostre miserie. E questo è importante: che

nel dialogo possano emergere le proprie miserie, senza giustificazioni. Non abbiate paura!

Bisogna sentirsi parte di un unico grande popolo destinatario delle divine promesse, aperte a un futuro

che attende che ognuno possa partecipare al banchetto preparato da Dio per tutti i popoli (cfr Is 25,6). E qui vorrei

precisare che anche sul concetto di “popolo di Dio” ci possono essere ermeneutiche rigide e antagoniste,

rimanendo intrappolati nell’idea di una esclusività, di un privilegio, come accadde per l’interpretazione del

concetto di “elezione” che i profeti hanno corretto, indicando come dovesse essere rettamente inteso. Non si

tratta di un privilegio – essere popolo di Dio –, ma di un dono che qualcuno riceve … per sé? No: per tutti, il dono

è per donarlo: questa è la vocazione. È un dono che qualcuno riceve per tutti, che noi abbiamo ricevuto per gli

altri, è un dono che è anche una responsabilità. La responsabilità di testimoniare nei fatti e non solo a parole le

meraviglie di Dio, che, se conosciute, aiutano le persone a scoprire la sua esistenza e ad accogliere la sua salvezza.

L’elezione è un dono, e la domanda è: il mio essere cristiano, la mia confessione cristiana, come lo regalo, come

lo dono? La volontà salvifica universale di Dio si offre alla storia, a tutta l’umanità attraverso l’incarnazione del

Figlio, perché tutti, attraverso la mediazione della Chiesa, possano diventare figli suoi e fratelli e sorelle tra loro.

È in questo modo che si realizza la riconciliazione universale tra Dio e l’umanità, quell’unità di tutto il genere

umano di cui la Chiesa è segno e strumento (cfr Lumen gentium, 1). Già prima del Concilio Vaticano II era maturata

la riflessione, elaborata sullo studio attento dei Padri, che il popolo di Dio è proteso verso la realizzazione del

Regno, verso l’unità del genere umano creato e amato da Dio. E la Chiesa come noi la conosciamo e

sperimentiamo, nella successione apostolica, questa Chiesa deve sentirsi in rapporto con questa elezione

universale e per questo svolgere la sua missione. Con questo spirito ho scritto Fratelli tutti. La Chiesa, come diceva

San Paolo VI, è maestra di umanità che oggi ha lo scopo di diventare scuola di fraternità.

Perché vi dico queste cose? Perché nel cammino sinodale, l’ascolto deve tener conto del sensus fidei,

ma non deve trascurare tutti quei “presentimenti” incarnati dove non ce l’aspetteremmo: ci può essere un “fiuto

senza cittadinanza”, ma non meno efficace. Lo Spirito Santo nella sua libertà non conosce confini, e non si lascia

nemmeno limitare dalle appartenenze. Se la parrocchia è la casa di tutti nel quartiere, non un club esclusivo, mi

raccomando: lasciate aperte porte e finestre, non vi limitate a prendere in considerazione solo chi frequenta o la

pensa come voi – che saranno il 3, 4 o 5%, non di più. Permettete a tutti di entrare… Permettete a voi stessi di

andare incontro e lasciarsi interrogare, che le loro domande siano le vostre domande, permettete di camminare

insieme: lo Spirito vi condurrà, abbiate fiducia nello Spirito. Non abbiate paura di entrare in dialogo e lasciatevi

sconvolgere dal dialogo: è il dialogo della salvezza.

Non siate disincantati, preparatevi alle sorprese. C’è un episodio nel libro dei Numeri (cap. 22) che

racconta di un’asina che diventerà profetessa di Dio. Gli ebrei stanno concludendo il lungo viaggio che li condurrà

alla terra promessa. Il loro passaggio spaventa il re Balak di Moab, che si affida ai poteri del mago Balaam per

bloccare quella gente, sperando di evitare una guerra. Il mago, a suo modo credente, domanda a Dio che fare.

Dio gli dice di non assecondare il re, che però insiste, e allora lui cede e sale su un’asina per adempiere il comando

ricevuto. Ma l’asina cambia strada perché vede un angelo con la spada sguainata che sta lì a rappresentare la

contrarietà di Dio. Balaam la tira, la percuote, senza riuscire a farla tornare sulla via. Finché l’asina si mette a

parlare avviando un dialogo che aprirà gli occhi al mago, trasformando la sua missione di maledizione e morte in

missione di benedizione e vita.

Questa storia ci insegna ad avere fiducia che lo Spirito farà sentire sempre la sua voce. Anche un’asina

può diventare la voce di Dio, aprirci gli occhi e convertire le nostre direzioni sbagliate. Se lo può fare un’asina,

quanto più un battezzato, una battezzata, un prete, un Vescovo, un Papa. Basta affidarsi allo Spirito Santo che

usa tutte le creature per parlarci: soltanto ci chiede di pulire le orecchie per sentire bene.

Sono venuto qui per incoraggiarvi a prendere sul serio questo processo sinodale e a dirvi che lo Spirito

Santo ha bisogno di voi. E questo è vero: lo Spirito Santo ha bisogno di noi. Ascoltatelo ascoltandovi. Non lasciate

fuori o indietro nessuno. Farà bene alla Diocesi di Roma e a tutta la Chiesa, che non si rafforza solo riformando le

strutture – questo è il grande inganno! –, dando istruzioni, offrendo ritiri e conferenze, o a forza di direttive e

programmi - questo è buono, ma come parte di altro - ma se riscoprirà di essere popolo che vuole camminare

insieme, tra di noi e con l’umanità. Un popolo, quello di Roma, che contiene la varietà di tutti i popoli e di tutte

e condizioni: che straordinaria ricchezza, nella sua complessità! Ma occorre uscire dal 3-4% che rappresenta i più

vicini, e andare oltre per ascoltare gli altri, i quali a volte vi insulteranno, vi cacceranno via, ma è necessario sentire

cosa pensano, senza volere imporre le nostre cose: lasciare che lo Spirito ci parli.

In questo tempo di pandemia, il Signore spinge la missione di una Chiesa che sia sacramento di cura.

Il mondo ha elevato il suo grido, ha manifestato la sua vulnerabilità: il mondo ha bisogno di cura.

Coraggio e avanti! Grazie!