“PATRIS CORDE” – “CON CUORE DI PADRE”

"Così Giuseppe ha amato Gesù"

Prima di Natale avevamo presentato la Lettera Apostolica di Papa Francesco sulla figura di San Giuseppe , “PATRIS CORDE”. In occasione del 150° anniversario della dichiarazione di San Giuseppe quale patrono della Chiesa universale (8 dicembre 2020) Il papa ha indetto un anno speciale: “Anno di San Giuseppe”.

Ogni settimana pubblicheremo una parte di questa lettera per imparare a conoscere alcune caratteristiche della figura di S. Giuseppe che possono aiutare il nostro singolare e comunitario Cammino di FEDE.

1. Padre amato

La grandezza di San Giuseppe consiste nel fatto che egli fu lo sposo di Maria e il padre di Gesù. In quanto tale, «si pose al servizio dell’intero disegno salvifico», come afferma San Giovanni Crisostomo.

San Paolo VI osserva che la sua paternità si è espressa concretamente «nell’aver fatto della sua vita un servizio, un sacrificio, al mistero dell’incarnazione e alla missione redentrice che vi è congiunta; nell’aver usato dell’autorità legale, che a lui spettava sulla sacra Famiglia, per farle totale dono di sé, della sua vita, del suo lavoro; nell’aver convertito la sua umana vocazione all’amore domestico nella sovrumana oblazione di sé, del suo cuore e di ogni capacità, nell’amore posto a servizio del Messia germinato nella sua casa».

Per questo suo ruolo nella storia della salvezza, San Giuseppe è un padre che è stato sempre amato dal popolo cristiano, come dimostra il fatto che in tutto il mondo gli sono state dedicate numerose chiese; che molti Istituti religiosi, Confraternite e gruppi ecclesiali sono ispirati alla sua spiritualità e ne portano il nome; e che in suo onore si svolgono da secoli varie rappresentazioni sacre. Tanti Santi e Sante furono suoi appassionati devoti, tra i quali Teresa d’Avila, che lo adottò come avvocato e intercessore, raccomandandosi molto a lui e ricevendo tutte le grazie che gli chiedeva; incoraggiata dalla propria esperienza, la Santa persuadeva gli altri ad essergli devoti.[9]

In ogni manuale di preghiere si trova qualche orazione a San Giuseppe. Particolari invocazioni gli vengono rivolte tutti i mercoledì e specialmente durante l’intero mese di marzo, tradizionalmente a lui dedicato.

La fiducia del popolo in San Giuseppe è riassunta nell’espressione “Ite ad Ioseph”, che fa riferimento al tempo di carestia in Egitto quando la gente chiedeva il pane al faraone ed egli rispondeva: «Andate da Giuseppe; fate quello che vi dirà» (Gen 41,55). Si trattava di Giuseppe figlio di Giacobbe, che fu venduto per invidia dai fratelli (cfr Gen 37,11-28) e che – stando alla narrazione biblica – successivamente divenne vice-re dell’Egitto (cfr Gen 41,41-44).

Come discendente di Davide (cfr Mt 1,16.20), dalla cui radice doveva germogliare Gesù secondo la promessa fatta a Davide dal profeta Natan (cfr 2 Sam 7), e come sposo di Maria di Nazaret, San Giuseppe è la cerniera che unisce l’Antico e il Nuovo Testamento.

(prima parte)

Seconda parte della Lettera Apostolica di Papa Francesco, “PATRIS CORDE”, che ci aiuta a conoscere alcune caratteristiche della figura di S. Giuseppe che possono aiutare il nostro singolare e comunitario Cammino di FEDE.

2. Padre nella tenerezza


Giuseppe vide crescere Gesù giorno dopo giorno «in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli

uomini» (Lc 2,52). Come il Signore fece con Israele, così egli “gli ha insegnato a camminare,

tenendolo per mano: era per lui come il padre che solleva un bimbo alla sua guancia, si chinava su

di lui per dargli da mangiare” (cfr Os 11,3-4).

Gesù ha visto la tenerezza di Dio in Giuseppe: «Come è tenero un padre verso i figli, così il

Signore è tenero verso quelli che lo temono» (Sal 103,13).

Giuseppe avrà sentito certamente riecheggiare nella sinagoga, durante la preghiera dei Salmi,

che il Dio d’Israele è un Dio di tenerezza, che è buono verso tutti e «la sua tenerezza si espande su

tutte le creature» (Sal 145,9).

La storia della salvezza si compie «nella speranza contro ogni speranza» (Rm 4,18) attraverso le

nostre debolezze. Troppe volte pensiamo che Dio faccia affidamento solo sulla parte buona e

vincente di noi, mentre in realtà la maggior parte dei suoi disegni si realizza attraverso e

nonostante la nostra debolezza. È questo che fa dire a San Paolo: «Affinché io non monti in

superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non

monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l'allontanasse da me. Ed

egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza”»

(2 Cor 12,7-9).

Se questa è la prospettiva dell’economia della salvezza, dobbiamo imparare ad accogliere la

nostra debolezza con profonda tenerezza.

Il Maligno ci fa guardare con giudizio negativo la nostra fragilità, lo Spirito invece la porta alla

luce con tenerezza. È la tenerezza la maniera migliore per toccare ciò che è fragile in noi. Il dito

puntato e il giudizio che usiamo nei confronti degli altri molto spesso sono segno dell’incapacità di

accogliere dentro di noi la nostra stessa debolezza, la nostra stessa fragilità. Solo la tenerezza ci

salverà dall’opera dell’Accusatore (cfr Ap 12,10). Per questo è importante incontrare la

Misericordia di Dio, specie nel Sacramento della Riconciliazione, facendo un’esperienza di verità e

tenerezza. Paradossalmente anche il Maligno può dirci la verità, ma, se lo fa, è per condannarci. Noi

sappiamo però che la Verità che viene da Dio non ci condanna, ma ci accoglie, ci abbraccia, ci

sostiene, ci perdona. La Verità si presenta a noi sempre come il Padre misericordioso della parabola

(cfr Lc 15,11-32): ci viene incontro, ci ridona la dignità, ci rimette in piedi, fa festa per noi, con la

motivazione che «questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato»

(v. 24).

Anche attraverso l’angustia di Giuseppe passa la volontà di Dio, la sua storia, il suo progetto.

Giuseppe ci insegna così che avere fede in Dio comprende pure il credere che Egli può operare

anche attraverso le nostre paure, le nostre fragilità, la nostra debolezza. E ci insegna che, in mezzo

alle tempeste della vita, non dobbiamo temere di lasciare a Dio il timone della nostra barca. A volte

noi vorremmo controllare tutto, ma Lui ha sempre uno sguardo più grande.

Terza parte della Lettera Apostolica di papa Francesco “PATRIS CORDE”, che ci aiuta a conoscere alcune caratteristiche delal figura di S. Giuseppe che possono aiutare il nostro singolare e comunitario Cammino di FEDE

3. Padre nell’obbedienza

Analogamente a ciò che Dio ha fatto con Maria, quando le ha manifestato il suo piano di salvezza,

così anche a Giuseppe ha rivelato i suoi disegni; e lo ha fatto tramite i sogni, che nella Bibbia, come

presso tutti i popoli antichi, venivano considerati come uno dei mezzi con i quali Dio manifesta la

sua volontà. Giuseppe è fortemente angustiato davanti all’incomprensibile gravidanza di Maria: non

vuole «accusarla pubblicamente», ma decide di «ripudiarla in segreto» (Mt 1,19). Nel primo sogno

l’angelo lo aiuta a risolvere il suo grave dilemma: «Non temere di prendere con te Maria, tua sposa.

Infatti, il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo

chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,20-21). La sua risposta fu

immediata: «Quando si destò dal sonno, fece come gli aveva ordinato l’angelo» (Mt 1,24). Con

l’obbedienza egli superò il suo dramma e salvò Maria.

Nel secondo sogno l’angelo ordina a Giuseppe: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre,

fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo»

(Mt 2,13). Giuseppe non esitò ad obbedire, senza farsi domande sulle difficoltà cui sarebbe andato

incontro: «Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, dove rimase

fino alla morte di Erode» (Mt 2,14-15).

In Egitto Giuseppe, con fiducia e pazienza, attese dall’angelo il promesso avviso per ritornare nel

suo Paese. Appena il messaggero divino, in un terzo sogno, dopo averlo informato che erano morti

quelli che cercavano di uccidere il bambino, gli ordina di alzarsi, di prendere con sé il bambino e sua

madre e ritornare nella terra d’Israele (cfr Mt 2,19-20), egli ancora una volta obbedisce senza

esitare: «Si alzò, prese il bambino e sua madre ed entrò nella terra d’Israele» (Mt 2,21).

Ma durante il viaggio di ritorno, «quando venne a sapere che nella Giudea regnava Archelao al

posto di suo padre Erode, ebbe paura di andarvi. Avvertito poi in sogno – ed è la quarta volta che

accade – si ritirò nella regione della Galilea e andò ad abitare in una città chiamata Nazaret»

(Mt 2,22-23).

L’evangelista Luca, da parte sua, riferisce che Giuseppe affrontò il lungo e disagevole viaggio da

Nazaret a Betlemme, secondo la legge dell’imperatore Cesare Augusto relativa al censimento, per

farsi registrare nella sua città di origine. E proprio in questa circostanza nacque Gesù (cfr 2,1-7), e

fu iscritto all’anagrafe dell’Impero, come tutti gli altri bambini.

San Luca, in particolare, si preoccupa di rilevare che i genitori di Gesù osservavano tutte le

prescrizioni della Legge: i riti della circoncisione di Gesù, della purificazione di Maria dopo il parto,

dell’offerta a Dio del primogenito (cfr 2,21-24).

In ogni circostanza della sua vita, Giuseppe seppe pronunciare il suo “fiat”, come Maria

nell’Annunciazione e Gesù nel Getsemani.

Giuseppe, nel suo ruolo di capo famiglia, insegnò a Gesù ad essere sottomesso ai genitori

(cfr Lc 2,51), secondo il comandamento di Dio (cfr Es 20,12).

Nel nascondimento di Nazaret, alla scuola di Giuseppe, Gesù imparò a fare la volontà del Padre.

Tale volontà divenne suo cibo quotidiano (cfr Gv 4,34). Anche nel momento più difficile della sua

vita, vissuto nel Getsemani, preferì fare la volontà del Padre e non la propria e si fece «obbediente

fino alla morte [...] di croce» (Fil 2,8). Per questo, l’autore della Lettera agli Ebrei conclude che Gesù

«imparò l’obbedienza da ciò che patì» (5,8).

Da tutte queste vicende risulta che Giuseppe «è stato chiamato da Dio a servire direttamente la

persona e la missione di Gesù mediante l’esercizio della sua paternità: proprio in tal modo egli

coopera nella pienezza dei tempi al grande mistero della Redenzione ed è veramente ministro della

salvezza».

Quarta parte della Lettera Apostolica di papa Francesco “PATRIS CORDE”, che ci aiuta a conoscere alcune caratteristiche della figura di S. Giuseppe che possono aiutare il nostro singolare e comunitario Cammino di FEDE.

4. Padre nell’accoglienza

Giuseppe accoglie Maria senza mettere condizioni preventive. Si fida delle parole dell’Angelo. «La

nobiltà del suo cuore gli fa subordinare alla carità quanto ha imparato per legge; e oggi, in questo

mondo nel quale la violenza psicologica, verbale e fisica sulla donna è evidente, Giuseppe si

presenta come figura di uomo rispettoso, delicato che, pur non possedendo tutte le informazioni, si

decide per la reputazione, la dignità e la vita di Maria. E nel suo dubbio su come agire nel modo

migliore, Dio lo ha aiutato a scegliere illuminando il suo giudizio».

Tante volte, nella nostra vita, accadono avvenimenti di cui non comprendiamo il significato. La

nostra prima reazione è spesso di delusione e ribellione. Giuseppe lascia da parte i suoi

ragionamenti per fare spazio a ciò che accade e, per quanto possa apparire ai suoi occhi misterioso,

egli lo accoglie, se ne assume la responsabilità e si riconcilia con la propria storia. Se non ci

riconciliamo con la nostra storia, non riusciremo nemmeno a fare un passo successivo, perché

rimarremo sempre in ostaggio delle nostre aspettative e delle conseguenti delusioni.

La vita spirituale che Giuseppe ci mostra non è una via che spiega, ma una via che accoglie. Solo a

partire da questa accoglienza, da questa riconciliazione, si può anche intuire una storia più grande,

un significato più profondo. Sembrano riecheggiare le ardenti parole di Giobbe, che all’invito della

moglie a ribellarsi per tutto il male che gli accade risponde: «Se da Dio accettiamo il bene, perché

non dovremmo accettare il male?» (Gb 2,10).

Giuseppe non è un uomo rassegnato passivamente. Il suo è un coraggioso e forte protagonismo.

L’accoglienza è un modo attraverso cui si manifesta nella nostra vita il dono della fortezza che ci

viene dallo Spirito Santo. Solo il Signore può darci la forza di accogliere la vita così com’è, di fare

spazio anche a quella parte contradditoria, inaspettata, deludente dell’esistenza.

La venuta di Gesù in mezzo a noi è un dono del Padre, affinché ciascuno si riconcili con la carne

della propria storia anche quando non la comprende fino in fondo.

Come Dio ha detto al nostro Santo: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere» (Mt 1,20), sembra

ripetere anche a noi: “Non abbiate paura!”. Occorre deporre la rabbia e la delusione e fare spazio,

senza alcuna rassegnazione mondana ma con fortezza piena di speranza, a ciò che non abbiamo

scelto eppure esiste. Accogliere così la vita ci introduce a un significato nascosto. La vita di ciascuno

di noi può ripartire miracolosamente, se troviamo il coraggio di viverla secondo ciò che ci indica il

Vangelo. E non importa se ormai tutto sembra aver preso una piega sbagliata e se alcune cose

ormai sono irreversibili. Dio può far germogliare fiori tra le rocce. Anche se il nostro cuore ci

rimprovera qualcosa, Egli «è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa» (1 Gv 3,20).

Torna ancora una volta il realismo cristiano, che non butta via nulla di ciò che esiste. La realtà, nella

sua misteriosa irriducibilità e complessità, è portatrice di un senso dell’esistenza con le sue luci e le

sue ombre. È questo che fa dire all’apostolo Paolo: «Noi sappiamo che tutto concorre al bene, per

quelli che amano Dio» (Rm 8,28). E Sant’Agostino aggiunge: «anche quello che viene chiamato

male (etiam illud quod malum dicitur)». In questa prospettiva totale, la fede dà significato ad ogni

evento lieto o triste.

Lungi da noi allora il pensare che credere significhi trovare facili soluzioni consolatorie. La fede che

ci ha insegnato Cristo è invece quella che vediamo in San Giuseppe, che non cerca scorciatoie, ma

affronta “ad occhi aperti” quello che gli sta capitando, assumendone in prima persona la

responsabilità.

L’accoglienza di Giuseppe ci invita ad accogliere gli altri, senza esclusione, così come sono,

riservando una predilezione ai deboli, perché Dio sceglie ciò che è debole (cfr 1 Cor 1,27), è «padre

degli orfani e difensore delle vedove» (Sal 68,6) e comanda di amare lo straniero. Voglio

immaginare che dagli atteggiamenti di Giuseppe Gesù abbia preso lo spunto per la parabola del

figlio prodigo e del padre misericordioso (cfr Lc 15,11-32).

Quinta parte della Lettera Apostolica di papa Francesco “PATRIS CORDE”, che ci aiuta a conoscere alcune caratteristiche della figura di S. Giuseppe che possono aiutare il nostro singolare e comunitario Cammino di FEDE.

5 . Padre dal coraggio creativo

Se la prima tappa di ogni vera guarigione interiore è accogliere la propria storia, ossia fare

spazio dentro noi stessi anche a ciò che non abbiamo scelto nella nostra vita, serve però aggiungere un’altra

caratteristica importante: il coraggio creativo. Esso emerge soprattutto quando si incontrano difficoltà. Infatti,

davanti a una difficoltà ci si può fermare e abbandonare il campo, oppure ingegnarsi in qualche modo. Sono a

volte proprio le difficoltà che tirano fuori da ciascuno di noi risorse che nemmeno pensavamo di avere.

Molte volte, leggendo i “Vangeli dell’infanzia”, ci viene da domandarci perché Dio non sia intervenuto in

maniera diretta e chiara. Ma Dio interviene per mezzo di eventi e persone. Giuseppe è l’uomo mediante il quale

Dio si prende cura degli inizi della storia della redenzione. Egli è il vero “miracolo” con cui Dio salva il Bambino e

sua madre. Il Cielo interviene fidandosi del coraggio creativo di quest’uomo, che giungendo a Betlemme e non

trovando un alloggio dove Maria possa partorire, sistema una stalla e la riassetta, affinché diventi quanto più

possibile un luogo accogliente per il Figlio di Dio che viene nel mondo (cfr Lc 2,6-7). Davanti all’incombente

pericolo di Erode, che vuole uccidere il Bambino, ancora una volta in sogno Giuseppe viene allertato per

difendere il Bambino, e nel cuore della notte organizza la fuga in Egitto (cfr Mt 2,13-14).

A una lettura superficiale di questi racconti, si ha sempre l’impressione che il mondo sia in balia dei forti e dei

potenti, ma la “buona notizia” del Vangelo sta nel far vedere come, nonostante la prepotenza e la violenza dei

dominatori terreni, Dio trovi sempre il modo per realizzare il suo piano di salvezza. Anche la nostra vita a volte

sembra in balia dei poteri forti, ma il Vangelo ci dice che ciò che conta, Dio riesce sempre a salvarlo, a

condizione che usiamo lo stesso coraggio creativo del carpentiere di Nazaret, il quale sa trasformare un

problema in un’opportunità anteponendo sempre la fiducia nella Provvidenza.

Se certe volte Dio sembra non aiutarci, ciò non significa che ci abbia abbandonati, ma che si fida di noi, di

quello che possiamo progettare, inventare, trovare.

Si tratta dello stesso coraggio creativo dimostrato dagli amici del paralitico che, per presentarlo a Gesù, lo

calarono giù dal tetto (cfr Lc 5,17-26). La difficoltà non fermò l’audacia e l’ostinazione di quegli amici. Essi erano

convinti che Gesù poteva guarire il malato e «non trovando da qual parte farlo entrare a causa della folla,

salirono sul tetto e, attraverso le tegole, lo calarono con il lettuccio davanti a Gesù nel mezzo della stanza.

Vedendo la loro fede, disse: “Uomo, ti sono perdonati i tuoi peccati”» (vv. 19-20). Gesù riconosce la fede

creativa con cui quegli uomini cercano di portargli il loro amico malato.

Il Vangelo non dà informazioni riguardo al tempo in cui Maria e Giuseppe e il Bambino rimasero in Egitto.

Certamente però avranno dovuto mangiare, trovare una casa, un lavoro. Non ci vuole molta immaginazione per

colmare il silenzio del Vangelo a questo proposito. La santa Famiglia dovette affrontare problemi concreti come

tutte le altre famiglie, come molti nostri fratelli migranti che ancora oggi rischiano la vita costretti dalle

sventure e dalla fame. In questo senso, credo che San Giuseppe sia davvero uno speciale patrono per tutti

coloro che devono lasciare la loro terra a causa delle guerre, dell’odio, della persecuzione e della miseria.

Alla fine di ogni vicenda che vede Giuseppe come protagonista, il Vangelo annota che egli si alza, prende con

sé il Bambino e sua madre, e fa ciò che Dio gli ha ordinato (cfr Mt 1,24; 2,14.21). In effetti, Gesù e Maria sua

Madre sono il tesoro più prezioso della nostra fede.

Nel piano della salvezza non si può separare il Figlio dalla Madre, da colei che «avanzò nella peregrinazione

della fede e serbò fedelmente la sua unione col Figlio sino alla croce».

Dobbiamo sempre domandarci se stiamo proteggendo con tutte le nostre forze Gesù e Maria, che

misteriosamente sono affidati alla nostra responsabilità, alla nostra cura, alla nostra custodia. Il Figlio

dell’Onnipotente viene nel mondo assumendo una condizione di grande debolezza. Si fa bisognoso di Giuseppe

per essere difeso, protetto, accudito, cresciuto. Dio si fida di quest’uomo, così come fa Maria, che in Giuseppe

trova colui che non solo vuole salvarle la vita, ma che provvederà sempre a lei e al Bambino. In questo senso

San Giuseppe non può non essere il Custode della Chiesa, perché la Chiesa è il prolungamento del Corpo di

Cristo nella storia, e nello stesso tempo nella maternità della Chiesa è adombrata la maternità di

Maria.[ Giuseppe, continuando a proteggere la Chiesa, continua a proteggere il Bambino e sua madre, e anche

noi amando la Chiesa continuiamo ad amare il Bambino e sua madre.

Questo Bambino è Colui che dirà: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli,

l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Così ogni bisognoso, ogni povero, ogni sofferente, ogni moribondo, ogni

forestiero, ogni carcerato, ogni malato sono “il Bambino” che Giuseppe continua a custodire. Ecco perché San

Giuseppe è invocato come protettore dei miseri, dei bisognosi, degli esuli, degli afflitti, dei poveri, dei

moribondi. Ed ecco perché la Chiesa non può non amare innanzitutto gli ultimi, perché Gesù ha posto in essi

una preferenza, una sua personale identificazione. Da Giuseppe dobbiamo imparare la medesima cura e

responsabilità: amare il Bambino e sua madre; amare i Sacramenti e la carità; amare la Chiesa e i poveri.

Ognuna di queste realtà è sempre il Bambino e sua madre

Sesta parte della Lettera Apostolica di papa Francesco “PATRIS CORDE”

6. Padre lavoratore

Un aspetto che caratterizza San Giuseppe e che è stato posto in evidenza sin dai tempi della

prima Enciclica sociale, la Rerum novarum di Leone XIII, è il suo rapporto con il lavoro. San

Giuseppe era un carpentiere che ha lavorato onestamente per garantire il sostentamento della sua

famiglia. Da lui Gesù ha imparato il valore, la dignità e la gioia di ciò che significa mangiare il pane

frutto del proprio lavoro.

In questo nostro tempo, nel quale il lavoro sembra essere tornato a rappresentare un’urgente

questione sociale e la disoccupazione raggiunge talora livelli impressionanti, anche in quelle nazioni

dove per decenni si è vissuto un certo benessere, è necessario, con rinnovata consapevolezza,

comprendere il significato del lavoro che dà dignità e di cui il nostro Santo è esemplare patrono.

Il lavoro diventa partecipazione all’opera stessa della salvezza, occasione per affrettare l’avvento

del Regno, sviluppare le proprie potenzialità e qualità, mettendole al servizio della società e della

comunione; il lavoro diventa occasione di realizzazione non solo per sé stessi, ma soprattutto per

quel nucleo originario della società che è la famiglia. Una famiglia dove mancasse il lavoro è

maggiormente esposta a difficoltà, tensioni, fratture e perfino alla tentazione disperata e

disperante del dissolvimento. Come potremmo parlare della dignità umana senza impegnarci

perché tutti e ciascuno abbiano la possibilità di un degno sostentamento?

La persona che lavora, qualunque sia il suo compito, collabora con Dio stesso, diventa un po’

creatore del mondo che ci circonda. La crisi del nostro tempo, che è crisi economica,

sociale, culturale e spirituale, può rappresentare per tutti un appello a riscoprire il valore,

l’importanza e la necessità del lavoro per dare origine a una nuova “normalità”, in cui nessuno sia

escluso. Il lavoro di San Giuseppe ci ricorda che Dio stesso fatto uomo non ha disdegnato di

lavorare. La perdita del lavoro che colpisce tanti fratelli e sorelle, e che è aumentata negli ultimi

tempi a causa della pandemia di Covid-19, dev’essere un richiamo a rivedere le nostre priorità.

Imploriamo San Giuseppe lavoratore perché possiamo trovare strade che ci impegnino a dire:

nessun giovane, nessuna persona, nessuna famiglia senza lavoro!

Settima parte della Lettera Apostolica di papa Francesco “PATRIS CORDE”

7. Padre nell’ombra

Lo scrittore polacco Jan Dobraczyński, nel suo libro L’ombra del Padre, ha narrato in forma di

romanzo la vita di San Giuseppe. Con la suggestiva immagine dell’ombra definisce la figura di

Giuseppe, che nei confronti di Gesù è l’ombra sulla terra del Padre Celeste: lo custodisce, lo

protegge, non si stacca mai da Lui per seguire i suoi passi. Pensiamo a ciò che Mosè ricorda a

Israele: «Nel deserto [...] hai visto come il Signore, tuo Dio, ti ha portato, come un uomo porta il

proprio figlio, per tutto il cammino» (Dt 1,31). Così Giuseppe ha esercitato la paternità per tutta la

sua vita.

Padri non si nasce, lo si diventa. E non lo si diventa solo perché si mette al mondo un figlio, ma

perché ci si prende responsabilmente cura di lui. Tutte le volte che qualcuno si assume la

responsabilità della vita di un altro, in un certo senso esercita la paternità nei suoi confronti.

Nella società del nostro tempo, spesso i figli sembrano essere orfani di padre. Anche la Chiesa di

oggi ha bisogno di padri. È sempre attuale l’ammonizione rivolta da San Paolo ai Corinzi: «Potreste

avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri» (1 Cor 4,15); e ogni sacerdote

o vescovo dovrebbe poter aggiungere come l’Apostolo: «Sono io che vi ho generato in Cristo Gesù

mediante il Vangelo» (ibid.). E ai Galati dice: «Figli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché

Cristo non sia formato in voi!» (4,19).

Essere padri significa introdurre il figlio all’esperienza della vita, alla realtà. Non trattenerlo, non

imprigionarlo, non possederlo, ma renderlo capace di scelte, di libertà, di partenze. Forse per

questo, accanto all’appellativo di padre, a Giuseppe la tradizione ha messo anche quello di

“castissimo”. Non è un’indicazione meramente affettiva, ma la sintesi di un atteggiamento che

esprime il contrario del possesso. La castità è la libertà dal possesso in tutti gli ambiti della vita.

Solo quando un amore è casto, è veramente amore. L’amore che vuole possedere, alla fine diventa

sempre pericoloso, imprigiona, soffoca, rende infelici. Dio stesso ha amato l’uomo con amore

casto, lasciandolo libero anche di sbagliare e di mettersi contro di Lui. La logica dell’amore è

sempre una logica di libertà, e Giuseppe ha saputo amare in maniera straordinariamente libera.

Non ha mai messo sé stesso al centro. Ha saputo decentrarsi, mettere al centro della sua vita Maria

e Gesù.

La felicità di Giuseppe non è nella logica del sacrificio di sé, ma del dono di sé. Non si percepisce

mai in quest’uomo frustrazione, ma solo fiducia. Il suo persistente silenzio non contempla

lamentele ma sempre gesti concreti di fiducia. Il mondo ha bisogno di padri, rifiuta i padroni, rifiuta

cioè chi vuole usare il possesso dell’altro per riempire il proprio vuoto; rifiuta coloro che

confondono autorità con autoritarismo, servizio con servilismo, confronto con oppressione, carità

con assistenzialismo, forza con distruzione. Ogni vera vocazione nasce dal dono di sé, che è la

maturazione del semplice sacrificio. Anche nel sacerdozio e nella vita consacrata viene chiesto

questo tipo di maturità. Lì dove una vocazione, matrimoniale, celibataria o verginale, non giunge

alla maturazione del dono di sé fermandosi solo alla logica del sacrificio, allora invece di farsi segno

della bellezza e della gioia dell’amore rischia di esprimere infelicità, tristezza e frustrazione.

La paternità che rinuncia alla tentazione di vivere la vita dei figli spalanca sempre spazi

all’inedito. Ogni figlio porta sempre con sé un mistero, un inedito che può essere rivelato solo con

l’aiuto di un padre che rispetta la sua libertà. Un padre consapevole di completare la propria azione

educativa e di vivere pienamente la paternità solo quando si è reso “inutile”, quando vede che il

figlio diventa autonomo e cammina da solo sui sentieri della vita, quando si pone nella situazione di

Giuseppe, il quale ha sempre saputo che quel Bambino non era suo, ma era stato semplicemente

affidato alle sue cure. In fondo, è ciò che lascia intendere Gesù quando dice: «Non chiamate

“padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste» (Mt 23,9).

Tutte le volte che ci troviamo nella condizione di esercitare la paternità, dobbiamo sempre

ricordare che non è mai esercizio di possesso, ma “segno” che rinvia a una paternità più alta. In un

certo senso, siamo tutti sempre nella condizione di Giuseppe: ombra dell’unico Padre celeste, che

«fa sorgere il sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45); e ombra

che segue il Figlio.

Ultima parte della Lettera Apostolica di papa Francesco “PATRIS CORDE”

8. Conclusione


«Alzati, prendi con te il bambino e sua madre» (Mt 2,13), dice Dio a San Giuseppe.

Lo scopo di questa Lettera Apostolica è quello di accrescere l’amore verso questo grande Santo, per

essere spinti a implorare la sua intercessione e per imitare le sue virtù e il suo slancio.

Infatti, la specifica missione dei Santi è non solo quella di concedere miracoli e grazie, ma di

intercedere per noi davanti a Dio, come fecero Abramo e Mosè, come fa Gesù, «unico mediatore»

(1 Tm 2,5), che presso Dio Padre è il nostro «avvocato» (1 Gv 2,1), «sempre vivo per intercedere in

[nostro] favore» (Eb 7,25; cfr Rm 8,34).

I Santi aiutano tutti i fedeli «a perseguire la santità e la perfezione del proprio stato». La loro

vita è una prova concreta che è possibile vivere il Vangelo.

Gesù ha detto: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29), ed essi a loro

volta sono esempi di vita da imitare. San Paolo ha esplicitamente esortato: «Diventate miei

imitatori!» (1 Cor 4,16). San Giuseppe lo dice attraverso il suo eloquente silenzio.

Davanti all’esempio di tanti Santi e di tante Sante, Sant’Agostino si chiese: «Ciò che questi e

queste hanno potuto fare, tu non lo potrai?». E così approdò alla conversione definitiva

esclamando: «Tardi ti ho amato, o Bellezza tanto antica e tanto nuova!».

Non resta che implorare da San Giuseppe la grazia delle grazie: la nostra conversione.

A lui rivolgiamo la nostra preghiera:

Salve, custode del Redentore,

e sposo della Vergine Maria.

A te Dio affidò il suo Figlio;

in te Maria ripose la sua fiducia;

con te Cristo diventò uomo.

O Beato Giuseppe,

mostrati padre anche per noi,

e guidaci nel cammino della vita.

Ottienici grazia, misericordia e coraggio,

e difendici da ogni male. Amen.

Roma, presso San Giovanni in Laterano, 8 dicembre, Solennità dell’Immacolata Concezione della

B.V. Maria, dell’anno 2020, ottavo del mio pontificato.

Franciscus