Sabato 22 febbraio Convegno Mondialità 2022 sul tema del “perdono”:
Per forza o per-dono? La complessa via della riconciliazione
Nell’anno del Festival della Missione dal titolo “Vivere per dono”, Pastorale
missionaria, Pastorale migranti e Caritas ambrosiana propongono, come da tradizione, il Convegno Mondialità.
Il Convegno Mondialità 2022 intende offrire un momento di riflessione particolare sul tema del perdono come
chiave di volta per la vita e per la pace. Il titolo del convegno è «Per forza o per-dono? La complessa via della
riconciliazione». Come spiegano gli organizzatori, infatti, «il perdono è meta ambiziosa, per niente ovvio, mai
promulgabile, raggiungibile solo attraverso complessi cammini di riconciliazione, come insegna il vissuto di
numerosi popoli, pacificati sulla carta, ma consumati da conflitti sottotraccia».
Riporteremo nei prossimi numeri dell’Informatore qualche intervento di questo convegno.
Su questo tema invito a leggere alcuni passaggi della lettera enciclica “Fratelli Tutti” di Papa Francesco
241. Non si tratta di proporre un perdono rinunciando ai propri diritti davanti a un potente corrotto, a un
criminale o a qualcuno che degrada la nostra dignità. Siamo chiamati ad amare tutti, senza eccezioni, però amare
un oppressore non significa consentire che continui ad essere tale; e neppure fargli pensare che ciò che fa è
accettabile. Al contrario, il modo buono di amarlo è cercare in vari modi di farlo smettere di opprimere, è togliergli
quel potere che non sa usare e che lo deforma come essere umano. Perdonare non vuol dire permettere che
continuino a calpestare la dignità propria e altrui, o lasciare che un criminale continui a delinquere. Chi patisce
ingiustizia deve difendere con forza i diritti suoi e della sua famiglia, proprio perché deve custodire la dignità che
gli è stata data, una dignità che Dio ama. Se un delinquente ha fatto del male a me o a uno dei miei cari, nulla mi
vieta di esigere giustizia e di adoperarmi affinché quella persona – o qualunque altra – non mi danneggi di nuovo
né faccia lo stesso contro altri. Mi spetta farlo, e il perdono non solo non annulla questa necessità bensì la
richiede.
242. Ciò che conta è non farlo per alimentare un’ira che fa male all’anima della persona e all’anima del nostro
popolo, o per un bisogno malsano di distruggere l’altro scatenando una trafila di vendette. Nessuno raggiunge la
pace interiore né si riconcilia con la vita in questa maniera. La verità è che «nessuna famiglia, nessun gruppo di
vicini, nessuna etnia e tanto meno un Paese ha futuro, se il motore che li unisce, li raduna e copre le differenze è
la vendetta e l’odio. Non possiamo metterci d’accordo e unirci per vendicarci, per fare a chi è stato violento la
stessa cosa che lui ha fatto a noi, per pianificare occasioni di ritorsione sotto forme apparentemente legali». Così
non si guadagna nulla e alla lunga si perde tutto.
243. Certo, «non è un compito facile quello di superare l’amara eredità di ingiustizie, ostilità e diffidenze
lasciata dal conflitto. Si può realizzare soltanto superando il male con il bene (cfr Rm12,21) e coltivando quelle
virtù che promuovono la riconciliazione, la solidarietà e la pace». In tal modo, «a chi la fa crescere dentro di sé,
la bontà dona una coscienza tranquilla, una gioia profonda anche in mezzo a difficoltà e incomprensioni. Persino
di fronte alle offese subite, la bontà non è debolezza, ma vera forza, capace di rinunciare alla vendetta». Occorre
riconoscere nella propria vita che «quel giudizio duro che porto nel cuore contro mio fratello o mia sorella, quella
ferita non curata, quel male non perdonato, quel rancore che mi farà solo male, è un pezzetto di guerra che porto
dentro, è un focolaio nel cuore, da spegnere perché non divampi in un incendio».
244. Quando i conflitti non si risolvono ma si nascondono o si seppelliscono nel passato, ci sono silenzi che
possono significare il rendersi complici di gravi errori e peccati. Invece la vera riconciliazione non rifugge dal
conflitto, bensì si ottiene nel conflitto, superandolo attraverso il dialogo e la trattativa trasparente, sincera e
paziente. La lotta tra diversi settori, «quando si astenga dagli atti di inimicizia e dall’odio vicendevole, si trasforma
a poco a poco in una onesta discussione, fondata nella ricerca della giustizia».
245. Più volte ho proposto «un principio che è indispensabile per costruire l’amicizia sociale: l’unità è
superiore al conflitto. […] Non significa puntare al sincretismo, né all’assorbimento di uno nell’altro, ma alla
risoluzione su di un piano superiore che conserva in sé le preziose potenzialità delle polarità in contrasto».[229]
Sappiamo bene che «ogni volta che, come persone e comunità, impariamo a puntare più in alto di noi stessi e dei
nostri interessi particolari, la comprensione e l’impegno reciproci si trasformano […] in un ambito dove i conflitti,
le tensioni e anche quelli che si sarebbero potuti considerare opposti in passato, possono raggiungere un’unità
multiforme che genera nuova vita».
246. Da chi ha sofferto molto in modo ingiusto e crudele, non si deve esigere una specie di “perdono sociale”.
La riconciliazione è un fatto personale, e nessuno può imporla all’insieme di una società, anche quando abbia il
compito di promuoverla. Nell’ambito strettamente personale, con una decisione libera e generosa, qualcuno può
rinunciare ad esigere un castigo (cfr Mt 5,44-46), benché la società e la sua giustizia legittimamente tendano ad
esso. Tuttavia non è possibile decretare una “riconciliazione generale”, pretendendo di chiudere le ferite per
decreto o di coprire le ingiustizie con un manto di oblio. Chi può arrogarsi il diritto di perdonare in nome degli
altri? È commovente vedere la capacità di perdono di alcune persone che hanno saputo andare al di là del danno
patito, ma è pure umano comprendere coloro che non possono farlo. In ogni caso, quello che mai si deve proporre
è il dimenticare.
247. La Shoah non va dimenticata. È il «simbolo di dove può arrivare la malvagità dell’uomo quando,
fomentata da false ideologie, dimentica la dignità fondamentale di ogni persona, la quale merita rispetto assoluto
qualunque sia il popolo a cui appartiene e la religione che professa». Nel ricordarla, non posso fare a meno di
ripetere questa preghiera: «Ricordati di noi nella tua misericordia. Dacci la grazia di vergognarci di ciò che, come
uomini, siamo stati capaci di fare, di vergognarci di questa massima idolatria, di aver disprezzato e distrutto la
nostra carne, quella che tu impastasti dal fango, quella che tu vivificasti col tuo alito di vita. Mai più, Signore, mai
più!».
248. Non vanno dimenticati i bombardamenti atomici a Hiroshima e Nagasaki. Ancora una volta «faccio
memoria qui di tutte le vittime e mi inchino davanti alla forza e alla dignità di coloro che, essendo sopravvissuti a
quei primi momenti, hanno sopportato nei propri corpi per molti anni le sofferenze più acute e, nelle loro menti,
i germi della morte che hanno continuato a consumare la loro energia vitale. […] Non possiamo permettere che
le attuali e le nuove generazioni perdano la memoria di quanto accaduto, quella memoria che è garanzia e stimolo
per costruire un futuro più giusto e fraterno». E nemmeno vanno dimenticati le persecuzioni, il traffico di schiavi
e i massacri etnici che sono avvenuti e avvengono in diversi Paesi, e tanti altri fatti storici che ci fanno vergognare
di essere umani. Vanno ricordati sempre, sempre nuovamente, senza stancarci e senza anestetizzarci.
249. È facile oggi cadere nella tentazione di voltare pagina dicendo che ormai è passato molto tempo e che
bisogna guardare avanti. No, per amor di Dio! Senza memoria non si va mai avanti, non si cresce senza una
memoria integra e luminosa. Abbiamo bisogno di mantenere «la fiamma della coscienza collettiva, testimoniando
alle generazioni successive l’orrore di ciò che accadde», che «risveglia e conserva in questo modo la memoria
delle vittime, affinché la coscienza umana diventi sempre più forte di fronte ad ogni volontà di dominio e di
distruzione». Ne hanno bisogno le vittime stesse – persone, gruppi sociali o nazioni – per non cedere alla logica
che porta a giustificare la rappresaglia e ogni violenza in nome del grande male subito. Per questo, non mi riferisco
solo alla memoria degli orrori, ma anche al ricordo di quanti, in mezzo a un contesto avvelenato e corrotto, sono
stati capaci di recuperare la dignità e con piccoli o grandi gesti hanno scelto la solidarietà, il perdono, la fraternità.
Fa molto bene fare memoria del bene.
250. Il perdono non implica il dimenticare. Diciamo piuttosto che quando c’è qualcosa che in nessun modo
può essere negato, relativizzato o dissimulato, tuttavia, possiamo perdonare. Quando c’è qualcosa che mai
dev’essere tollerato, giustificato o scusato, tuttavia, possiamo perdonare. Quando c’è qualcosa che per nessuna
ragione dobbiamo permetterci di dimenticare, tuttavia, possiamo perdonare. Il perdono libero e sincero è una
grandezza che riflette l’immensità del perdono divino. Se il perdono è gratuito, allora si può perdonare anche a
chi stenta a pentirsi ed è incapace di chiedere perdono.
251. Quanti perdonano davvero non dimenticano, ma rinunciano ad essere dominati dalla stessa forza
distruttiva che ha fatto loro del male. Spezzano il circolo vizioso, frenano l’avanzare delle forze della distruzione.
Decidono di non continuare a inoculare nella società l’energia della vendetta, che prima o poi finisce per ricadere
ancora una volta su loro stessi. Infatti, la vendetta non sazia mai veramente l’insoddisfazione delle vittime. Ci
sono crimini così orrendi e crudeli, che far soffrire chi li ha commessi non serve per sentire che si è riparato il
delitto; e nemmeno basterebbe uccidere il criminale, né si potrebbero trovare torture equiparabili a ciò che ha
potuto soffrire la vittima. La vendetta non risolve nulla.
252. Neppure stiamo parlando di impunità. Ma la giustizia la si ricerca in modo adeguato solo per amore
della giustizia stessa, per rispetto delle vittime, per prevenire nuovi crimini e in ordine a tutelare il bene comune,
non come un presunto sfogo della propria ira. Il perdono è proprio quello che permette di cercare la giustizia
senza cadere nel circolo vizioso della vendetta né nell’ingiustizia di dimenticare.
253. Quando vi sono state ingiustizie da ambo le parti, va riconosciuto con chiarezza che possono non aver
avuto la stessa gravità o non essere comparabili. La violenza esercitata da parte delle strutture e del potere dello
Stato non sta allo stesso livello della violenza di gruppi particolari. In ogni caso, non si può pretendere che vengano
ricordate solamente le sofferenze ingiuste di una sola delle parti. Come hanno insegnato i Vescovi della Croazia,
«noi dobbiamo ad ogni vittima innocente il medesimo rispetto. Non vi possono essere differenze etniche,
confessionali, nazionali o politiche».
254. Chiedo a Dio «di preparare i nostri cuori all’incontro con i fratelli al di là
delle differenze di idee, lingua, cultura, religione; di ungere tutto il nostro essere con l’olio della sua misericordia
che guarisce le ferite degli errori, delle incomprensioni, delle controversie; la grazia di inviarci con umiltà e mitezza
nei sentieri impegnativi ma fecondi della ricerca della pace».